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la prostituzione nella Roma pagana

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la prostituzione nella Roma pagana Empty la prostituzione nella Roma pagana

Messaggio  Admin Ven Lug 31, 2009 5:49 pm

Era con il suo primo rapporto sessuale con una donna, più che indossando la toga virile, che il maschio romano attestava il proprio ingresso nella maggiore età. Per la mentalità latina il soddisfacimento dei piaceri fisici era una delle condizioni indispensabili per garantire la stabilità della struttura sociale, basata soprattutto sulla virilità dell’uomo.
Ma se nella Roma antica foste andati di notte sulla Via Appia o in qualunque altra strada del centro urbano, non avreste incontrato le passeggiatrici; a differenza di quella fiera delle nudità che fa bella mostra di sé in quasi tutte le nostre strade, oggi in Italia, nel mondo romano la prostituzione era praticata solo nei lupanari, i bordelli, che per la loro innegabile funzione sociale erano addirittura posti sotto la tutela e il controllo dello Stato.
Il diritto romano regolò con varie leggi la prostituzione: le “case” potevano essere aperte solo nelle ore notturne, evidentemente perché di giorno avrebbero danneggiato l’economia distraendo il cittadino dalle consuete attività produttive; ed erano situate fuori città o comunque in zone urbane ben individuabili e accessibili solo da chi volesse frequentarle: un po’ come avviene oggi in molte città dell’Europa centrale.
Le inquiline dei lupanari erano regolarmente registrate e adottavano un fittizio nome di battaglia, dovendo abbandonare quello della famiglia d’origine. A differenza delle moderne dame di compagnia, che qui in Italia fanno lauti guadagni ma non pagano le tasse, le prostitute romane guadagnavano poco e per di più venivano anche tassate: fu Caligola a vedere nella prostituzione un buon affare per lo Stato facendone un settore d’interesse per il fisco. E, intendiamoci, niente condoni…
Solitamente le meretrici erano schiave o appartenevano ai ceti più miseri, ma, per quel gusto della trasgressione che è sempre stato forte nella natura umana, non era nemmeno infrequente trovarsi a letto con una… prestatrice d’opera d’alto rango, che ovviamente si presentava sotto falso nome, come si dice dell’irrefrenabile Messalina, moglie dell’imperatore Claudio. E non era certo la sola.
A Roma c’erano qualcosa come 32mila prostitute, che si vendevano per l’equivalente di pochi euro di oggi nei lupanari dei bassifondi, dove le stanze erano piccole e più simili a celle che a un’alcova di piacere; sui muri, dipinti o scritte erotiche solleticavano gli appetiti dei clienti e servivano come catalogo delle varie prestazioni. Naturalmente, come oggi, non mancavano i prostituti maschi.
Per finire, una considerazione su una caratteristica indisponente dell’opinione pubblica romana in tema di comportamenti sessuali: un maschio libero che si concedeva rapporti erotici con un altro maschio, era al massimo considerato semplicemente impudicus, uno sporcaccione; mentre a una povera prostituta venivano affibbiati appellativi che, impietosamente e senza possibilità di equivoci, ne individuavano la professione, rimarcandone l’abiezione; appellativi che si sono trasferiti col tempo nel moderno vocabolario volgare: lupa, dal nome di quella selvaggia e sempre allupata Acca Larenzia che aveva allevato Romolo e Remo; puttana, dal verbo latino putere, puzzare; ****** termine spregiativo che fa riferimento alla femmina del porco; o infine femmina da troiaio, porcile, per indicare quel luogo fetido e lurido dove le malcapitate si prostituivano.
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